Il Folclore

L'amore; il matrimonio

Per quanto riguarda l’AMORE, sopravvive a Manziana - se pur a fatica - un discreto patrimonio di canti e stornelli, in gran parte d’area romana. Durante la vendemmia, quando i giovani facevano alle ragazze lo scherzo della 'mostarella' - strofinando loro sul viso i grappoli d’uva - si levavano le "sàtrie", veri e propri canti a dispetto (‘Madre ‘nganna, donna sciagurata’, ‘Bella si sei gelosa butta ‘l banno’). Nelle lunghe ore che i braccianti, uomini e donne, trascorrevano sui campi era possibile udire canti assai diversi fra loro (dai più malinconici ai più aspri, sino ai 'rispetti' d’importazione umbro-laziale), nei quali comunque mancava l’espressione del sentimento amoroso nelle sue forme più solari e gioiose (‘Occhi turchini della tortorella’, ‘M’affaccio alla finestra e vedo il mare’, ‘Se avessi la virtù che ha l’anguilla’, ‘In mezzo al mare c’è un albero d’ùa', ‘Portala alla fiera e métteje ‘l campano’, ‘Àrzete bella si te sei corcata’, ‘Rose sfiorate’, ‘E v’entrasse ‘na volpe nel pollaio’, ‘Brutta de qua, brutta de là’).

Una considerazione. A Manziana, il materiale folclorico relativo all'amore è piuttosto scarso, e non ci permette di riconoscere appieno all'amore stesso il ruolo di cerniera fra il ciclo della vita e il ciclo dell'anno: cerniera rappresentata dal ruolo fondamentale dell'approccio amoroso durante il lavoro nei campi. Il motivo è abbastanza evidente, ed è individuabile nelle caratteristiche umane e geografiche dell'area attorno a Manziana, da Civitavecchia a Roma, passando per i monti della Tolfa e la Campagna Romana Occidentale. Terre difficili (si pensi alla frequente presenza delle paludi) in cui una civiltà contadina vera e propria non s'era mai formata. Conseguenza diretta è stata, per le tradizioni popolari manzianesi, la mancanza di culture con cui interagire, segnatamente per quanto riguarda il rapporto fra lavoro nei campi e usi relativi all'amore.

I ricordi diretti di tempi più vicini a noi - dal 1930 al 1950 - insistono sull'uso abbastanza frequente delle 'serenate', alcune cantate anche con testi un po' audaci. E torna alla memoria anche il desiderio delle giovani di poter andare a ballare, il sabato o la domenica, eludendo spesso l'occhiuta sorveglianza dei genitori; si ballava con le musiche tradizionali da decenni (valzer, polka, mazurka) o con quelle "un po' sfrontate", come il tango.


Un'occhiata alle NOZZE. I ricordi ascoltati dalla viva voce degli anziani non danno informazioni particolarmente stimolanti per la prima metà del Novecento, quando gli usi relativi al matrimonio si sono uniformati un po' in tutta l'Italia. Viceversa, i documenti d'epoca ci danno indicazioni precise sui 'codici' relativi alle nozze nel XIX secolo, almeno fino alla presa di Roma.
Questi documenti sono i 'Corredi', cioè gli elenchi degli oggetti che la donna portava con sé come dote. Venivano firmati dalla madre della sposa e controfirmati da testimoni, ed erano probabilmente inseriti nei 'capitoli' (scritture private delle condizioni stabilite per il matrimonio), che venivano letti la vigilia delle nozze in casa della fidanzata, di fronte a parenti e amici. Poche semplici cose, ma sufficienti per farci capire, oggi, il ruolo subalterno assegnato in quei tempi alla donna. La teglia da camino, il letto matrimoniale, il paiolo, la tovaglia e i tovaglioli, il materasso: con questi oggetti - che diventavano proprietà del marito fino alla di lui morte o fino ad una separazione legale - la sposa si impegnava a provvedere, senza condizioni, al mantenimento e al governo della casa coniugale. Era un impegno già indicato, in realtà, durante il fidanzamento, quando l'uomo regalava alla ragazza oggetti di lavoro utili in casa (l'arcolaio, ad esempio, o i ferri da calza).
Per compensazione, la donna diventava il soggetto più ammirato e discusso il giorno delle nozze. Dall’esame dei corredi del primo Ottocento è possibile ricostruire quasi per intero il costume nuziale femminile manzianese, che coincideva con l'abito festivo, reso più elegante dai 'monili' indossati nell'occasione dalla sposa. La camicia di mussola o di seta bianca ha il collo probabilmente senza risvolto e le maniche, leggermente a sbuffo sulle spalle, terminano un po’ prima del polso. Il “davantino” della camicia è la 'pettina' tessuta d’oro. Sopra viene indossata la "carmagnola", di un fiammante color ponzò, il rosso papavero: è costituita dal corpetto e dalle maniche che a quest’ultimo vengono allacciate. Lo stesso colore è riservato al fazzolettone di seta che si può portare sul capo o ripiegato a triangolo sulle spalle. Sul davanti della gonna, di drappo con fondo verde rasato, è allacciato il 'sinalino' di seta ricamato d’argento. Gli orecchini d’oro e i fili di 'perle grosse' (o la corona d’ambra oppure il 'cuore indorato') come monili. Ai piedi, coperti dalle calzette di lino, le scarpette nere a mezzo tacco, secondo l’uso viterbese e romano.









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