Il Folclore

Ciclo dell'anno: estate e autunno

Un'usanza gentile e beneaugurante segnava l'inizio dell'estate: l'acqua di S. Giovanni, conosciuta anche in altre parti d'Italia: “La sera del 23 giugno si mettevano a bagno, alla serena, fiori profumati e foglie profumate: lavanda, noce, matricaria, canfora, S. Maria. La mattina del 24 con quell'acqua ce se lavava. Se poi la mattina del 24 c'era la nebbia, se correva scalzi nei prati, pe' bagnasse i piedi co' la guazza”.

I ricordi meno antichi raccontano che quando la mietitura era finita, nei campi più vicini a Manziana, si gridava "viva Maria!", gettando in aria il cappello; si riponeva nel corno bovino la pietra con cui affilare la falce, e ci si preparava ad una sostanziosa colazione con pane e prosciutto, non disdegnando un po’ di buon vino e qualche battuta salace. Poi si procedeva alla trebbiatura. In tempi più lontani, tuttavia, quando non c'era ancora l'uso delle macchine, la 'trebbia' si faceva a mano. Era la cosiddetta 'sterta'. Il contadino batteva ritmicamente sulle spighe col 'correggiato', uno strumento formato da due bastoni, tenuti insieme - ma snodati - da un laccio.
Procedendo a ritroso negli anni, il mondo bracciantile manzianese appare più ricco di immagini e di faticose testimonianze. Il duro lavoro nelle campagne, accompagnato da cibi e bevande rustiche (acquacotta e ciambrusca) è ancora vivo nei ricordi dei braccianti più anziani, quelli che lavoravano in gran numero presso Maccarese o al Casalone di Ceri. Termini ed espressioni di quel mondo lontano sono ormai patrimonio di pochi (commare, botta morta, lestra, facocchio), mentre più d’uno ancora ricorda i canti di lavoro (canti 'a mète', quasi tutti importati): ‘Quando nascesti tune, nacque ‘na rosa’, ‘Vidi un monte sopra un altro monte’, ‘Sor arciprete’, ‘Te credi che lavoro, ma nun lavoro’, ‘Si lu padrone nun me da’ le caciu’, ‘Quando il bifolchetto fa baldoria’.
Si lavorava, ovviamente, anche un po' più vicino al paese, come ad es. a Castel Giuliano, dove si andava con le 'barrozze'. A Rota, in particolare, si registrava una via di mezzo fra lavoro bracciantile e mezzadria: una parte del raccolto la prendevano i lavoranti, fra cui c'erano donne, presenti sul posto con la famiglia.

Più indietro nel tempo, verso la fine dell'Ottocento, diversi braccianti manzianesi erano scesi al litorale ostiense, malsano e paludoso, in condizioni di lavoro difficilissime**.
Alcuni esercitavano il nomadismo dei pastori, alle dipendenze della 'masseria', rudimentale azienda dedita all'allevamento ovino; avevano senz'altro incontrato, nei loro spostamenti per la Campagna Romana, i pochi contadini stanziali, che vivevano - raggruppati per nuclei famigliari - preferibilmente nei casali. Altri - la maggior parte - erano stati testimoni dell'arrivo degli "scariolanti" romagnoli (prima cooperativa socialista di lavoratori nell'Ottocento) e dell'impegno con cui strappavano alla palude le terre tra Castelfusano e Maccarese; avevano poi conosciuto, laggiù, i "guitti" - lavoratori stagionali ciociari e abruzzesi - che sul finire dell'estate tornavano ai paesi di provenienza, gialli per la malaria e abbrutiti dalla fatica.

Altri braccianti, tra gli anni Venti e Trenta, erano andati nel paludoso Agro pontino, per la bonifica. Avevano raccolto testimonianze amare su chi, nei decenni precedenti, viveva in loco spostandosi fra gli stagni,e avevano rivissuto la dura esperienza dei guitti e degli scariolanti, sia pure in forme meno crude: “La malaria veniva d’estate. Te pijava un freddo … Pareva che te s’ammucchiassero le coste … Col chinino t’assordivi le orecchie, mica ce sentivi più; te fischiavano come … Poi te davano certe cosette piccole piccole, parevano cacate de sorci. La chiamavano Mistura Baccelli. Quant’era cattiva, amara!”.
Anche nei ricordi dei braccianti manzianesi, insomma, rivive l'epopea minore e dolente della bonifica delle paludi, che per secoli avevano rappresentato - in una consistente area del Lazio - una minacciosa e inospitale "terra di nessuno".

Ancora oggi, alla fine di agosto, il martirio del Battista richiama la volontà dei primi "cappannari" di dedicare il tempio al Precursore. E’ un ricordo lontano che non trascolora, comunque, nella memoria dei Manzianesi. Nonostante i cambiamenti e le sovrapposizioni inevitabili nelle feste estive, questa consapevolezza della devozione locale che attraversa serenamente i secoli è un dato folclorico oggettivo, che può ridestare momenti di suggestione specie quando il simulacro del Santo è portato in processione per le vie del paese.

La festa della Madonna delle Grazie, ai primi di settembre, ricorda ancora oggi le remote cerimonie con cui ci si augurava un autunno ed un inverno clementi. Lo stesso mese poteva offrire piacevoli scene di serena letizia dopo una buona vendemmia.
Sempre a settembre, sino a qualche decennio fa, si controllava con cura lo stato di salute degli animali, con opportuni strumenti (i Bottoni di fuoco). Poi a S. Brunone (il 6 ottobre), si tirava ai palombacci di passo, da piccoli casotti costruiti fra i rami di Macchia Grande.
Novembre portava con sé la "cacciarella", la caccia di gruppo al cinghiale nel bosco e negli spazi a sud-ovest di Manziana, con un cerimoniale di antichissime origini; e il 2 novembre vedeva l’usanza gentile della 'pizza dei morti'. L'autunno avanzato vedeva inoltre la preparazione delle botti, pronte a ricevere il vino nuovo. A dicembre poi, mentre si lavorava di vanga nelle vigne e si andava nel bosco a raccogliere legna secca, si attendeva il Natale, coi suoi riti e coi suoi cibi (baccalà in umido, ceci, mosciarelle, uva secca, spaghetti con le alici, radici di cardi spinosi fritte, fritture varie, maccheroni di Natale).
E per tutto l’anno era possibile udire motti e proverbi, comuni nella sostanza a tante parti d’Italia: ‘Sole di marzo, o tingo o ammazzo’, ‘S. Brunone, ogni quercia ‘l su’ piccione’, ‘Le mozzature se cóntono al cancello’, ‘Chi cantone se fa cane ce piscia’, assieme a tanti altri.

**Nota sulle paludi ostiensi.
Sin dal Medioevo, l'area tra Castel Fusano e Maccarese - insistente su uno strato argilloso e pressoché impermeabile - si era trovata in depressione rispetto al progressivo avanzamento della linea di costa. Le conseguenti formazioni paludose si estesero sensibilmente quando il Tevere in piena sfondò il proprio argine destro nei pressi di Ostia Antica, cambiando il proprio corso e lasciando alla propria sinistra il ramo del vecchio percorso, che aveva un andamento a ferro di cavallo (14.09.1557). Questo 'fiume morto' favorì poi la formazione del cosiddetto 'Stagno Ostiense'.









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